FAVOLE

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lunedì 20 ottobre 2014

LO ZIO PODGER

LO ZIO PODGER
di J. K. JEROME
In vita mia non avevo mai visto tanto trambusto in una casa, come nel momento che mio zio Podger si accingeva a far qualche cosa. Un quadro era ritornato dal negoziante di cornici, ed era stato lasciato ritto contro una parete della sala da pranzo aspettando d'essere appeso.
La zia domandava che cosa si doveva farne, e lo zio diceva:
- Lascia fare a me. Nessuno di voi s'impicci del quadro. Farò tutto io.
E allora si cavava la giacca, e cominciava. Mandava la fantesca a comprare cinquanta centesimi di chiodi, e poi uno dei bambini che la raggiungesse per dirle di che dimensioni dovevano essere, e dopo imprendeva gradatamente a mettere in moto tutta la casa.
- Ora, tu, Gugliemo, va a pigliarmi il martello - gridava - e tu, Tommasino, va a pigliarmi la squadra; e m'occorrerà anche la scaletta, e forse sarà meglio una sedia di cucina. Tu, Gianni, fa due salti dal signor Goggles; digli: "Tanti saluti da parte di papà, e come state con le gambe?" e se mi vuol prestare un livello. E tu, Maria, non te ne andare, perché ho bisogno che qualcuno mi tenga la candela; e quando ritorna la fantesca, deve andare a comprare un pezzo di cordone; e, Tommasino!... dov'è Tommasino?... Tommasino, vieni qui; piglia il quadro e dammelo!
E allora il quadro sollevato gli cadeva in mano, e saltava dalla cornice, ed egli, per salvare il vetro, si tagliava un dito; e allora si metteva a saltare per la stanza, cencando il fazzoletto. Non poteva trovare il fazzoletto perché l'aveva nella tasca della giacca, e non sapeva dove aveva lasciato la giacca, e tutti di casa dovevano interrompere la ricerca degli strumenti e cominciare a cercar la giacca, mentr'egli intanto seguitava a saltare in giro, impacciandoli.
- Sa nessuno, in tutta la casa, dov'è la mia giacca? Non m'è capitato mai di vedere gente simile! Siete in sei!... e non siete capaci di trovare una giacca che mi son cavata cinque minuti fa!... Qunt'è vero...
In quel momento era seduto, e scoprendo di star sopra la giacca, gridava:
- E' inutile che andiate in giro. L'ho trovata da me. Rivolgermi a voi perché troviate qualche cosa, è come dirlo al gatto.
E, dopo che aveva impiegato mezz'ora a legarsi l'indice, ed era stato trovato un altro vetro, e gli strumenti, e la sedia e la candela erano lì pronti, cominciava un altro divertimento: ché tutta la famiglia, compresa la fantesca e la donna a giornata, doveva assistere in semicerchio, pronta a dare una mano. Due persone dovevano reggere la sedia, una terza doveva consegnargli un chiodo, una quarta passargli il martello; e lui, pigliando in consegna il chiodo, lo lasciava cadere.
- Ecco - diceva, in tono d'offesa - è caduto il chiodo!
 E tutti dovevano inginocchiarsi a cercarlo, mentr'egli  se ne stava ritto sulla sedia a brontolare, e a domandarsi se doveva rimaner lì tutta la sera.
Il chiodo veniva finalmente scovato, ma intanto lui aveva perduto il martello.
- Dov'è il martello? Che ne ho fatto del martello? Giusto cielo! Ve ne state lì in sette a bocca aperta, e non sapete che cosa n'ho fatto del martello!
Gli trovavano il martello; e intanto aveva perso di vista il segno da lui fatto sulla parete, per configgervi il chiodo; e ciascuno doveva a turno salire accanto a lui sulla sedia per cercare di trovare il segno; e ciascuno lo scopriva in un punto diverso; e lui ci chiamava stupidi, l'uno dopo l'altro, ordinandoci di scendere. E prendeva la squadra, per prendere le misure un'altra volta, e trovando che gli occorreva la metà di ottantun centimetri e tre settimi di centimetro dall'angolo, tentava di fare il calcolo a memoria e gli pareva d'impazzire.
E tutti  tentavano a memoria, e tutti giungevano e risultati diversi, e ci davamo l'un l'altro la beffa. Nel trambusto generale era dimenticato il numero originale. E zio Podger doveva rimettersi a preder le misure.
Questa volta egli usava un pezzo di corda, e, nel momento critico, che lo zio era inclinato sulla sedia a un angolo di quarantacinque, provando di raggiungere un punto a un decimetro più di quanto si potesse sporgere, gli scappava la corda, ed egli s'abbatteva sul pianoforte, con un effetto musicale veramente bello, prodotto dalla velocità con cui la testa e il corpo aveva colpito contemporaneamente tutte le note.
E zia Maria esclamava che non voleva che i bambini stessero lì presenti a sentire le espressioni di mio zio.
Finalmente, zio Podger fissava di nuovo il punto, mettendovi sopra l'estremità aguzza del chiodo con la sinistra, e prendeva il martello nella destra. E, al primo colpo, si schiacciava il pollice, e con un urlo lasciava cascare il martello sui piedi del più vicino.
Zia Maria osservava con dolcezza che la prossima volta che zio Podger avrebbe dovuto ficcare un chiodo nel muro, le facesse la finezza di avvertirla in tempo, perché essa potesse disporre  le cose in modo da andare nel frattempo a passare una settimana  con la madre.
- Oh! Le donne fanno sempre un mondo di difficoltà per niente - rispondeva zio Podger, riprendendosi. - Ebbene, a me piace di lavorare un po' in questo modo.
E allora ci si provava di nuovo, e, al secondo colpo, il chiodo entrava tutto quanto nell'intonaco, trascinandosi dietro mezzo martello, mentre zio Podger veniva proiettato contro la parete con forza quasi sufficiente da appiattirgli il naso.
Allora gli dovevamo trovar di nuovo la squadra e la corda, e si doveva fare un buco nuovo; e, verso mezzanotte, il quadro era appeso - storto e alquanto instabile, con la parete che per dei metri in giro sembrava grattata da un rastrello, e tutti stanchi morti e infelici, tranne lo zio Podger.
- Ecco qui - diveva, balzando pesantemente dalla sedia sui calli della donna a giornata, e dando uno sguardo a tutta quella confuzione in giro con orgoglio evidente. - Molti avrebbero avuto bisogno d'un operaio per fare un lavoretto come questo.

mercoledì 24 settembre 2014

IL GIGANTE EGOISTA (SECONDA PARTE)

IL GIGANTE EGOISTA 
di Oscar WILDE
(Seconda Parte)
- Ora è vostro il giardino, bimbi miei; - disse il Gigante e preso un piccone grande grande abbatté il muro.

A mezzogiorno le donne che passavano per andare al mercato trovarono il Gigante che giocava coi bimbi nel più bel giardino che avessero mai visto.



Tutto il giorno fino alla sera giocarono, e la sera i bambini andarono a salutare il Gigante.
 
- Ma il vostro piccolo compagno, dov'è? - domandò il Gigante - quel bambinetto che ho messo sull'albero?



Il Gigante lo amava più di tutti perché era stato quello che lo aveva baciato.


- Non lo sappiamo; - risposero i bimbi - è andato via.


- Gli dovete dire che non manchi, che venga qui domani - disse il Gigante.


Ma i bambini non sapevano dove abitava, non l'avevano mai visto prima di quel giorno; e il Gigante si rattristò molto.
Ogni pomeriggio, finita la scuola, i bambini vennero ancora a giocare col Gigante. Ma quello particolarmente amato dal Gigante non si vide mai più.
Il Gigante era molto buono con tutti, ma pensava sempre al suo primo piccolo amico e spesso parlava di lui.

- Quanto mi piacerebbe vederlo! - diceva.

Passarono degli anni e il Gigante diventò vecchio e debole. Non poteva più giocare; seduto in una enorme poltrona, guardava i bambini intenti ai loro giochi ed ammirava il suo giardino.

-Quanti bei fiori! - diceva - ma i fiori più belli sono i bambini.

Una mattina d'inverno, mentre si vestiva, guardava dalla finestra.
Non odiava più l'inverno ora, perché sapeva che esso non era altro che la primavera addormentata, e che durante l'inverno i fiori si riposavano.
Ad un tratto si strofinò gli occhi meravigliato; guardò e guardò e tornò a guardare.
Era davvero una cosa meravigliosa. Nell'angolo più distante del giardino vide un albero tutto coperto di bei fiori bianchi. Dai suoi rami d'oro pendevano dei frutti d'argento, e sotto i rami stava il bimbo che aveva tanto amato.
Il Gigante traboccante di gioia, si precipitò giù per le scale, e fu fuori in giardino. Attraversò di corsa il prato e s'avvicinò al bambino. Quando gli fu proprio vicino, diventò tutto rosso dall'ira:

- Chi ha osato ferirti? - gridò il Gigante - dimmelo, che possa prendere la mia grande spada per ammazzarlo.

- No, no, - rispose il bambino - queste sono le ferite dell'amore.

- Chi sei? - domandò allora il Gigante; e preso da uno strano timore, cadde in ginocchio davanti al fanciullo.

Questi gli sorrise e gli disse:

- Una volta mi facesti giocare nel tuo giardino; oggi voglio che tu venga con me nel mio giardino, che è il Paradiso.

E quel pomeriggio, quando i bambini entrarono correndo, trovarono il Gigante morto, sdraiato sotto l'albero tutto coperto di fiorellini bianchi.


                                                                                               FINE

martedì 2 settembre 2014

IL GIGANTE EGOISTA (PRIMA PARTE)

IL GIGANTE EGOISTA
di Oscar WILDE

(Prima Parte)
Ogni pomeriggio, di ritorno dalla scuola, i bambini andavano a giocare nel giardino del Gigante.
Era un bel giardino grande tutto un prato di erba soffice e verde. Qua e là spuntavano fra l'erba dei bellissimi fiori, che parevano stelle; e c'erano anche dodici peschi che in primavera si ammantavano di fiorellini delicati perla e rosa, e in autunno portavano frutti sugosi. Gli uccelli cantavano sugli alberi così dolcemente, che i bambini spesso interrompevano i loro giochi per stare ad ascoltarli.


- Come siamo felici qui! - gridavano l'uno all'altro.


Un giorno tornò il Gigante. Era stato a far visita al suo amico l'Orco di Cornovaglia, ed era rimasto con lui per sette anni. Passati i sette anni, aveva detto tutto ciò che aveva da dire, ché la sua conversazione era piuttosto limitata, e perciò aveva deciso di tornare al proprio castello.
Quando arrivò, scorse i bambini che giocavano nel giardino.




- Che fate qui? - gridò con una voce più che burbera; e i bambini scapparono via.
- Il giardino è mio; - disse il Gigante - e questo qualunque imbecille lo può capire, e non voglio permettere a nessuno di giocarvi, fuorché a me stesso.


Così egli costruì tutto intorno un altissimo muro, e ci mise sopra un cartello così: "Bandita".
Era un Gigante proprio egoista.
Quei poveri bambini non avevano più un luogo dove giocare. Provavano a giocare nella strada, ma la strada era molto polverosa, piena di sassi, nient'affatto comoda. Finite le lezioni, giravano attorno all'alto muro parlando del bel giardino che era dentro il recinto.


- Come eravamo felici una volta! - si dicevano l'uno con l'altro.

Poi venne la primavera, e tutta la campagna era piena di fiorellini e di uccellini. Soltanto nel giardino del Gigante egoista era ancora inverno. Gli uccelli non provavano gusto a cantarvi, poiché non c'erano bimbi, e gli alberi si dimenticavano di fiorire. Una volta un bel fiore alzò la testa dall'erba, ma quando vide quel cartello si addolorò tanto pensando ai bambini, che rientrò sotto terra e si addormentò. Le sole creature contente erano la Neve e la Brina.

- La primavera ha dimenticato questo giardino, - gridavano - e noi ci potremo abitare tutto l'anno.

La Neve coprì bene l'erba col suo gran manto bianco, e la Brina dipinse su e giù per il giardino, tanto che fece cadere tutti i comignoli.

- Questo è un luogo delizioso, - diceva - bisogna invitare la Grandine a farci visita.

E venne la Grandine. Ogni giorno per tre ore essa picchiava sul tetto; così ruppe quasi tutte le tegole, e correva tutto attorno al giardino con una velocità da non dirsi. Vestiva di grigio e aveva il fiato gelido.

- Non so capire perché la primavera tarda tanto a venire; - disse il Gigante egoista, mentre stava seduto presso la finestra guardando fuori quel suo giardino bianco e freddo - speriamo che il tempo cambi.

Ma la primavera non venne mai, né venne l'estate. L'autunno profuse i suoi frutti dorati in tutti i giardini, ma non ne dette neppure uno  al giardino del Gigante.

- E' troppo egoista - diceva.

Nel giardino, dunque, fu sempre inverno, e la Tramontana, la Grandine, la Brina e la Neve si rincorrevano fra gli alberi.
Una mattina, mentre stava a letto sveglio, il Gigante udì una musica molto bella. Gli suonava così dolce all'orecchio che pensò passassero per la strada i musicanti del Re. In verità non era altro che un piccolo fringuello che cantava sul davanzale della finestra; ma era tanto tempo ormai che non sentiva cantare un uccello, che al Gigante parve fosse la musica più soave del mondo. In quel momento la Grandine smise di saltare sulle tegole e la Tramontana smise di ruggire, mentre un profumo delicato entrava nella camera per la finestra aperta.

- Sarà venuta la primavera, finalmente, - disse il Gigante e saltato giù dal letto corse alla finestra per guardare fuori.

Cosa vide?
Vide lo spettacolo più meraviglioso che si potesse immaginare. Attraverso un piccolo buco nel muro i bambini erano strisciati dentro, e ora sedevano fra i rami degli alberi; su ogni albero stava un bambino. E gli alberi erano tanto contenti di riavere con loro i bambini, che si erano ricoperti di fiori e agitavano i rami pian piano sopra le loro testoline. Gli uccelli volavano qua e là cinguettando per la contentezza, e i fiori guardavano in su attraverso l'erba verde e ridevano. Com'era bello! Però in un angolo del giardino era ancora inverno. Era l'angolo più distante. Laggiù stava un ragazzetto piccino piccino. Era piccino, piccino tanto, che non arrivava a toccare i rami dell'albero; per questo gli girava attorno piangendo disperatamente. Il povero albero era ancora tutto coperto di brina e di neve, e la tramontana soffiava e ruggiva tra i suoi rami.

- Arrampicati, bambino; - diceva l'albero e chinava i suoi rami più in basso che poteva; ma il bimbo era troppo piccolino.

Il cuore del Gigante si sciolse ad un tratto.

- Come sono stato egoista! - egli disse. - Ora capisco perché la primavera non è mai voluta venire. Metterò quel bambinetto in cima all'albero, getterò giù il muro e il mio giardino diventerà il prato dei giochi dei bambini per sempre, per sempre. - E si sentiva molto addolorato per quello che aveva fatto fin allora.

Scese pian piano le scale, aprì il portone senza far rumore, ed uscì in giardino. Ma appena lo videro, i bambini si spaventarono tanto che scapparono via tutti, e nel giardino tornò l'inverno. Solo il bimbo più piccolo, non era scappato, perché aveva gli occhi pieni di lacrime, ché non aveva visto venire il Gigante.
Il Gigante gli si avvicinò pian piano di dietro, lo prese delicatamente su una mano e lo mise a sedere sull'albero. L'albero improvvisamente sbocciò migliaia e migliaia di fiori, e gli uccelli vi si affollarono a cantare.
Il bimbo piccino gettò le braccine attorno al collo del Gigante e lo baciò.
Gli altri bambini, vedendo che il Gigante non era più cattivo, tornarono di corsa e con loro nuovamente venne la primavera.
 


PRIMA PARTE

martedì 26 agosto 2014

IL FUMO E L'ARROSTO

IL FUMO E L'ARROSTO
di ANONIMO



In Alessandria d'Egitto vi sono strade in cui stanno cuochi saracini a vender pietanze, e la gente va là a comperare i cibi più netti e più delicati, come noi in Toscana andiamo alla bottega a comperare le stoffe.
Un lunedì accadde che un povero saracino, il quale no aveva denari, passò davanti alla bottega di un cuoco chiamato Fabiac.
Non avendo moneta, tenne i pane sopra una  teglia d'arrosto e lo inebriò del profumo che ne usciva; e così mangiò.
Questo Fabiac non aveva fatto buoni affari quella mattina; se l'ebbe a noia, e, preso il povero saracino, gli disse:
- Pagami quello che tu hai preso.
Il povero  rispose:
- Io dalla tua cucina non ho preso altro che fumo.
- E tu pagamelo, - ripeteva Fabiac.
La cosa andò in tribunale.
Il Sultano radunò i savi del regno, e propose loro la questione.
i savi cominciarono a discutere: chi dava ragione al povero, e chi a Fabiac.
Finalmente questa fu la decisione:
- Giacché il povero ha goduto il fumo ma non ha toccato l'arrosto, prenda egli una moneta e la batta sul banco. La moneta suoner, e con quel suono il cuoco sarà pagato.
Così ordinò il Sultano; e Fabiac si ebbe il suono della moneta per il fumo dell'arrosto.               

   

               

lunedì 25 agosto 2014

LE SETTE VERGHE

LE SETTE VERGHE
di Cristoforo SCHMID




Un onesto agricoltore aveva sette figli, che erano in disaccordo tra loro, e spesso perdevano in contese i tempo che avrebbero dovuto impiegare nel lavoro.
E già i maligni pensavano di spogliarli del patrimonio, morto che fosse il padfre loro.
Questi, prevedendo una tgal fine, un giorno chiamò a sé  i sette figli e presentò loro sette verghe strettamente legate insieme, dicendo:
- Quegli fra voi che sarà capace di spezzare questo fascio riceverà cento scudi.
Tutti si misero alla prova, l'un dietro l'altro, e ciascuno disse alla fine:
- Ciò è impossibile.
- Eppure, - soggiunse il padre, - nulla c'è di più facile.
Ciò detto, slegò il fascio e ruppe senza fatica tutte le verghe una dopo l'altra.
- In questo modo, - esclamarono i sette figli, - nulla viè di più facile; e un fanciullo saprebbe fare altrettanto.
- Figli miei! - disse allora il padre, - accadrà di voi come di queste verghe; fino a che sarete uniti nessuno potrà opprimervi, ma quando i legami fra voi saranno sciolti, vi accadrà lo stesso che a queste verghe, fatte a pezze e sparse al suolo.









                                                                                  


I DESIDERI UMANI

I DESIDERI UMANI

di Niccolò TOMMASEO

 



Uno che aveva due figliole diede la prima in moglie ad un ortolano e l'altra ad un vasaio.
Passato del tempo, andò da quella dell'ortolano e le domandò come andassero le cose sue.
Ed ella:
- Tutto va bene; solamente io prego il cielo che venga un po' di pioggia per annaffiare gli erbaggi.
Non molto dopo, andò da quella del vasaio e domandò anche a lei come stava.
Ed ella:
- Non ho bisogno di nulla; solo io prego che faccia un po' di bel tempo e si lasci vedere il sole per seccare bene i cocci.
Il padre allora:
- Tu desideri il sereno, tua sorella vuole la pioggia. Per quale di voi due dovrò rivolgere al cielo le mie preghiere?





                                                                                                              

lunedì 7 luglio 2014

LA CAMICIA DELLA FELICITA'

LA CAMICIA DELLA FELICITA'

C'era una volta un re malato di malinconia: diceva di avere già i piedi nella fossa, scongiurava di salvarlo, e prometteva metà del suo regno a chi gli avesse portato sorrisi e felicità.
Figuratevi i cortigiani e i sapientoni!
Stavano in adunanza giorno e notte, discutevano rumorosamente, s'insolentivano anche nel fervore del parlare e del cercare; ma il rimedio per guarire quel bizzarro loro re malato di malinconia non riuscivano a trovarlo.
Fu chiamato anche il Vecchio della montagna, un sapientone con tanto di barba bianca, il quale dichiarò:
- Occorre trovare un uomo felice. Toglietegli la camicia, infilatela al re, e il re sarò subito anch'egli felice.
Immediatamente partirono cercatori per ogni parte del regno.
Fu suonata la trombetta nelle città, nelle cittaduzze, nei paesi e nei villaggi, ma gli esseri felici non si fecero innanzi.
Chi era povero e soffriva di astinenza, chi era ricco e sospirava per mal di denti o mal di ventre, chi aveva la moglie bisbetica e la suocera in convulsione, chi la stalla appestata, chi il pollaio in rovina...
I cercatori tornarono tutti alla Corte, portando delusioni.
Il re continuò a lagnarsi e a promettere metà del regno a chi gli avesse portato la camicia della felicità.
Una sera il figlio del re andava passeggiando meditabondo per la campagna.
Passando davanti ad una capanna, che aveva il tetto di foglie e di fango, udì parlare e pregare sommessamente.
- Ti ringrazio, buon Dio! Ho lavorato, ho sudato, ho mangiato di buon appetito, ed ora mi riposerò tranquillo su questo letto di foglie. Sono proprio felice!
Felice? Dunque c'era un uomo felice?
Il giovane principe volò al palazzo reale.
Chiamò le guardie, e ordinò di andare a prendere immediatamente la camicia di quell'uomo felice.
- Dategli quanto denaro vuole. Fatelo barone,  conte, duca, principe anche; mio pari. Ma ceda la sua camicia e portatela al re.
Corsero le guardie alla povera capanna.
Offrirono al boscaiolo una fortuna, per avere la sua camicia.
Macché! L'uomo felice era così povero che non aveva camicia.


domenica 6 luglio 2014

IL NONNO

IL NONNO


C'era una volta un vecchio che non ci vedeva più; non ci sentiva più; e le ginocchia gli tremavano. E quando era a tavola non poteva tener fermo il cucchiaio e faceva cadere la minestra sulla tovaglia, e qualche volta gliene scappava anche dalla bocca. 
E la moglie del suo figliuolo se n'era schifita; e anche il suo figlio. Sicché alla fine non lo vollero più a tavola con loro.
Il povero vecchio doveva star seduto al canto del camino, e mangiava un poco di zuppa in una scodella di terra.
 Un giorno siccome le sue mani tremavano, ecco che la scodella gli cadde per terra e si ruppe in due o tre pezzi. Allora sì, che la nuora gliene disse!
E il povero vecchio non rispose nulla, e chinò il capo, e sospirò. 
Gli comprarono una ciotola di legno, e gli dissero: 
- Codesta non la romperete.
Quella sera il suo figliuolo e la nuora videro il loro bimbetto, che giocava e raccattava i cocci della scodella.
-Che fai così? - gli disse suo padre.
-Rappiccico la scodella per dar da mangiare a babbo e mamma, quando sarò grande.
E il babbo e la mamma si guardarono negli occhi, poi si misero a piangere, e ripresero il nonno a tavola con loro, e d'allora in poi lo trattarono bene.
PICCOLO COMMENTO
A tutti noi è inesorabilmente segnato il cammino da percorrere: si nasce, si cresce, si entra nella giovinezza, poi nella maturità, quindi si declina verso la vecchiaia, quando le forze vengono meno e tutto diventa più grave e più faticoso.
E' allora che gli uomini hanno più bisogno di comprensione e di affetto.
Questo racconto desta tristezza, dolore e indignazione.
Nessun essere umano merita un trattamento simile.
Questo anziano aveva faticato duramente per l'avvenire e il benessere dei figli, ma loro lo hanno dimenticato.
Soprattutto hanno dimenticato che in futuro sarebbe toccato anche a loro la stessa sorte.
Ed è l'ingenuità di un bambino a farli rinsavire.